Descrivere le proprie impressioni sulla perdita del ben-essere e sulle perdite della vita mi rimanda all’esperienza clinica di ogni giorno, laddove la perdita è l’elemento che spesso alimenta e sostiene non solo gran parte dei disturbi emotivi ma qualsiasi patologia che comprometta il benessere di un individuo. Dal punto di vista
psichiatrico i disturbi emotivi, ed in primo luogo la depressione, sono strettamente legati a perdite affettive: del padre o della madre, dell’amico, del prestigio, del lavoro, e di ogni oggetto, reale o immaginario, su cui abbiamo investito.
La perdita dell’oggetto d’amore simbolicamente esprime la forza dei nostri investimenti, l’attaccamento nei confronti di qualcuno o qualcosa che per noi ha un senso, un significato profondo e che spesso sostiene le nostre insufficienze.
In alcune occasioni la perdita è solo fittizia, creata nella mente da progetti illusori che crollano di fronte alla realtà.
In ogni caso, che la perdita sia reale o immaginaria, se non ben elaborata e gestita, apre le strade alla depressione, e con essa alla perdita della vitalità, della progettualità e della speranza.
Nella prassi medica il rapporto medico-paziente nasce dalla perdita del benessere; in ogni forma di malattia la prima domanda che ci si pone riguarda l’entità della perdita: <<Cosa mi succederà? Come sopravviverò? Cosa sarà di me? Potrò continuare a fare ciò che facevo prima? Potrò correre o andare in piscina?>>.
Ed al medico viene chiesta una rassicurazione, un conforto, viene chiesto di farsi carico della perdita, di contenerla, di sostenerla, di ripararla.
Un compito difficile, perché la sofferenza non sempre può essere riparata, perché le malattie non sempre guariscono, perché non sempre è facile infondere speranza; e anche quando la prognosi è buona, l’entità della perdita – pur apparentemente banale – può avere un profondo significato psicologico, diverso da quello che noi stessi potremmo universalmente attribuire.
Ne conseguono importanti implicazioni che occorre definire perché possono modificare il decorso clinico di un qualsiasi processo morboso.
La perdita chirurgica di un’ovaia, dell’utero o di una parte del seno in seguito ad una mastectomia parziale, l’infarto del miocardico o l’ictus cerebrale con esisti più o meno invalidanti, la perdita della libido dopo un intervento alla prostrata o in seguito ad altre patologie, le menomazioni che conseguono ad interventi chirurgici più o meno invasivi o a patologie mediche, come l’epatite cronica o l’asma bronchiale, che possono togliere molto alla salute del paziente: sono tutti eventi che ripropongono la necessità di cogliere gli aspetti depressivi della perdita per ridare speranza.
Ma è anche importate saper riconoscere quando la depressione legata alla perdita assume le caratteristiche di un disturbo psichiatrico che richiede una precisa diagnosi ed un adeguato trattamento.
Un uomo affetto da un tumore può essere demoralizzato, triste, ma non avere la depressione. Un soggetto affetto da AIDS, da artrosi invalidante, o colpito di recente da infarto miocardico ha sicuramente dei validi motivi per sentirsi giù di morale, demotivato, disinteressato rispetto all’ambiente circostante, e non essere depresso.
Tuttavia recenti indagini indicano che si presta scarsa attenzione alla depressione conseguente alla perdita dell’integrità fisica nonostante l’evidenza che il riconoscimento e il trattamento dell’esperienza depressiva in comorbidità con patologie organiche determina un miglioramento della prognosi.
Un diabetico affetto da depressione può infatti non seguire le prescrizioni terapeutiche e dietetiche, può rifiutarsi di sottoporsi a periodici controlli clinici, può non essere motivato a “star bene” e sarà più vulnerabile a scompensi metabolici.
Allo stesso modo l’infartuato potrà esprimere la sua depressione attraverso la non adesione al trattamento medico o attraverso comportamenti che possono esporlo a maggiori rischi cardiovascolari, come il fumo di sigaretta o l’abuso di alcolici.
Si tratta di situazioni cliniche complesse in cui la chiave di lettura dell’esperienza depressiva deve essere necessariamente più ampia perché non raggiunge un livello di consapevolezza affettiva tale da manifestarsi con tutte le caratteristiche cliniche della depressione.
E’ importante saper identificare il confine tra la “normale esperienza di perdita” (demoralizzazione) e la depressione, un confine sfumato, con tante variabili e con importanti risvolti pratici:
quando ritenere una reazione depressiva normale e quando ritenerla patologica?
Si può rispondere in modo appropriato solo avendo una conoscenza profonda del soggetto e delle sue abitudini.
• Quanto è cambiata la sua vita?
• Ha gli stessi interessi di prima?
• Riesce a lavorare e a conservare un buon funzionamento sociale e familiare?
• Trascorre molto tempo a rimurginare sugli effetti fisici della malattia?
• Appare eccessivamente preoccupato e tendenzialmente ipocondriaco?
• Com’è la sua visione del futuro?
La percezione dell’esperienza depressiva viene colta infine nella qualità delle emozioni; si riesce a percepire che qualcosa non va, che la sofferenza non è più gestita, che il malessere manifestato va al di la di una normale e comprensibile esperienza di adattamento.
Quando l’esperienza depressiva diventa così devastante e capace di compromettere la funzionalità globale del soggetto occorre intraprendere un idoneo trattamento specialistico.
Per approfondire:
Pellegrino F, Non esiste la pillola della felicità, Positive Press, Verona, 1998
Pellegrino F, Gestire la crisi emotiva, Mediserve, Milano-Firenze-Napoli, 2005