Francesco è un professore che una mattina era terrorizzato all’idea di entrare in classe.
Emiliano un fisioterapista che trattava male tutti.
Laura un’insegnante che non sopportava più il rumore dei quaderni.
Inizia con la stanchezza, poi
arrivano la depressione e il panico. Sono storie di BURN OUT, un male che colpisce chi, per lavoro, aiuta gli altri.
E non basta pensare <<è un periodo, passerà >>
Quando ci sentiamo via email, Emiliano mi chiede di chiamarlo nel pomeriggio perché prima sarà all’ <<inferno>>; la clinica romana dove da 8 anni, lui ne ha 37, fa il fisioterapista.
<< Il nome giusto è Rsa: residenza sanitaria assistenziale. Che ormai ha preso il posto delle vecchie lungodegenze e così i pazienti, anziché restarci giusto per la riabilitazione, rimangono fino alla fine dei loro giorni. Non solo anziani: nove su dieci soffrono di demenza e di disturbi psichiatrici, per i quali la fisioterapia può fare davvero poco. Una volta, mentre ero in cortile a fumare una sigaretta, un anziano si è suicidato buttandosi dal balcone >>.
Francesco a 51 anni ha vissuto tutto l’iter tipico di un docente: il precariato, il macinare chilometri per andare a lavoro dalla provincia di Salerno, dove vive, fino in Basilicata dove era supplente, e finalmente l’entrata in ruolo. Alcuni anni fa, quando aveva già la cattedra, è <<scoppiato>>: << Una mattina mi sono svegliato e piangevo, mi tremavano le gambe, avevo paura di fare del male ai miei allievi. Non volevo varcare la porta, né sentirmi la responsabilità di educare qualcuno. Ho chiamato il preside, mi ha detto: "Si prenda dei giorni”. Io gli urlavo: “Voglio andare via dalla scuola, come devo fare?”>>.
Elena, direttore sanitario di una struttura del Lazio, è <<una pendolare che fa 170 chilometri al giorno. Più che allontanarmi dal lavoro, volevo sempre essere presente, anche quando non dovevo: non spegnevo il telefono, neanche in ferie. Non dormivo quasi mai e, quando capitava, sognavo quello che dovevo fare l’indomani>>.
Insegnanti che picchiano allievi, infermiere che maltrattano i malati. Avrete letto le storie sui giornali, e forse avrete pensato che siano << impazziti>>. Molto più spesso, la causa è un malessere profondo che colpisce le <<professioni d’aiuto>> (helping profession). Dietro di loro si nasconde – e neanche tanto – il burn out. << Un logorio professionale>>, spiega Ferdinando Pellegrino, medico psichiatra a Salerno e autore del libro La sindrome del burn out.
<<Chi svolge una professione a stretto contatto con il pubblico diventa incapace, a un certo punto, di gestire i ritmi e il carico emotivo che deriva dall’aiutare gli altri. Ciò può portare dapprima a un’apatia verso il lavoro, in seguito all’errore professionale, per non parlare dei rischi di patologie gravi>>. Emiliano tutto questo lo conosce bene. <<Alcuni di noi fisioterapisti erano così stressati da venire alle mani. Io, poi, avevo quella sensazione di morte sempre attaccata addosso, che per il mio lavoro è controproducente: il contatto fisico con il paziente è continuo e lui deve fidarsi di te. Ero disinteressato, cinico, trattavo male tutti. Sempre stanco, depresso, con mal di testa continuo: questa situazione è andata avanti per mesi, e nessuno si è accorto di nulla. Finchè ho chiesto il part-time: mia madre è invalida, me l’hanno concesso. E nei giorni in cui ero a casa, ho cominciato a recuperare me stesso>>.
Elena ha avuto un’ulcera, e solo il riposo forzato l’ha fermata per un po’. <<Ora sto meglio perché ho imparato a gestire lo stress, anche se basta poco per destabilizzarmi.
In ospedale uno degli infermieri del pronto soccorso è in burn out, abbiamo provato a spostarlo in un altro reparto, ma fa resistenza: ha paura di quello che possono pensare gli altri, l’ambiente è piccolo>>.
Ma come ci si accorge che non è <<semplice>> stress? <<Bisogna farsi delle domande fondamentali>>, dice Pellegrino, <<”Sono contento della vita che faccio? Quanto dormo la notte? Ho del tempo libero a disposizione?”. Un campanello d’allarme è quando si litiga di continuo con i colleghi, si fanno molte assenze, ci si sente risentiti, falliti, in colpa. E poi i segnali fisici: tensione muscolare, cefalee muscolo-tensive, disturbi gastro-intestinali, vertigini, tachicardia, stanchezza cronica. E’ inutile dirsi:”E’ un periodo, passerà”, non è così>>. C’è chi va avanti con farmaci, alcol e droghe. <<Un collega mi ha confessato di bere due litri di vino a sera. E ci sono dottori che approfittano del facile accesso ai farmaci per prenderli senza monitorarne l’effetto, diventandone dipendenti>>.
Francesco,i farmaci li prende ancora adesso, dietro prescrizione medica. <<Per mesi accompagnavo i miei figli e, arrivato a casa, stavo disteso sul letto tutto il tempo a guardare il soffitto finché non tornavo a prenderli. Oppure restavo sul divano da solo, senza parlare con nessuno. Il momento migliore era la sera perché, passata la giornata in cui normalmente ci si dedica al lavoro, io non mi sentivo più in colpa.
Per il mio atteggiamento. Quando ero a scuola, a volte mi veniva l’impulso di abbandonare la classe, ma ovviamente non lo facevo. All’esterno non si vedeva nulla e nessuno, neanche i miei alunni, si sono accorti di qualcosa. Ma senza questi antidepressivi, ho paura di perdere il controllo>>.
LO STRESS DA LAVORO SECONDO LA LEGGE
<< Non esistono regole specifiche sul Burn-out >>, spiega Alessandra Messina, avvocato esperto in diritto del lavoro.
<< Per una causa risarcitoria, bisogna dimostrare che c’è un nesso tra la cattiva organizzazione del lavoro e i disturbi psicofisici. Il lavoratore deve provare – fornendo email, lettere, ecc – che ha più volte messo in evidenza le condizioni inadeguate in cui svolgeva la professione e che le sue richieste di miglioramento sono rimaste inesaudite. Ha infatti molta rilevanza il fatto che l’azienda non abbia preso provvedimenti – per esempio il trasferimento in un altro reparto – per venire incotro al suo disagio. E il medico deve attestare che certe patologie sono riconducibili al contesto lavorativo. Di solito non si arriva al processo: le parti riescono ad accordarsi prima >>.
Con il nuovo Testo Unico sulla tutela della salute dei lavoratori, qualcosa potrebbe cambiare. Entro il 31 Dicembre 2010 le Aziende dovranno valutare lo <<lo stress da lavoro-correlato >>. Sarà compito dei datori di lavoro combatterne le cause – orari eccessivi, incertezza degli incarichi, mancanza, di comunicazione, tensioni – pena un’ammenda da 5 a 15 mila euro e reclusione da 4 a 8 mesi
Il mestiere dell’insegnante è ad alta usura psicologica, spiega Vittorio Lodolo D’Oria, medico e autore del libro Pazzi per la scuola, dove sono raccolti 125 casi di burn out, <<Il docente incontra tutti i giorni la stessa utenza composta da allievi figli della generazione del ’68, che raramente si sono sentiti dire di no, così gli tocca sostituirsi alla famiglia come educatore. Il suo inoltre è un mestiere che non ha più grande riconoscimento sociale né grandi prospettive di cambiamento. Lo stress prolungato può portare a patologie psichiatriche gravi, al suicidio. Ho incontrato gente che non riusciva più a dare i voti, a inventarsi titoli dei temi, gestire la classe, che faceva lezione con le tapparelle abbassate per paura di essere spiata>>.
Come succedeva a Laura (nome di fantasia), prof. In un Liceo del Torinese: <<Ero sempre stata a contatto con ragazzi difficili nelle scuole di periferia. Finché, dopo 23 anni di carriera, ho cominciato ad avere paura del gruppo esagitato. Non sopportavo il rumore dei quaderni ad anelli che si aprivano e chiudevano, faticavo a compilare i registri, avevo attacchi di panico, a volte ero così disorientata che non ricordavo dove fossero le aule in cui dovevo fare lezione>>. Cercare aiuto dai colleghi era inutile.
<<E mio marito mi zittiva. Urlavo spesso, ero nervosa, non riuscivo a stare dietro ai miei figli e a mia madre malata. Sono andata da uno psichiatra che mi ha dato degli antidepressivi, ma non nascondo che a volte ho pensato di farla finita>>.
A Laura è stata riconosciuta l’inidoneità permanente all’insegnamento: è andata in pensione prima del previsto.
Francesco è invece tornato tra i banchi, dopo uno stop di sei mesi. <<Ricordo ancora il giorno dell’accertamento della commissione: non ho avuto parole di comprensione, mi sembrava di essere giudicato per la mia inefficienza. Ora stringo i denti e vado avanti, i genitori e gli allievi mi considerano un buon professore>>.
<<Fino al 1992, con le baby pensioni, chi aveva 15 anni di servizio poteva ritirarsi>>, dice Lodolo D’Oria, che fa parte della commissione dell’Asl di Milano che valuta l’inabilità al lavoro.
<<Da allora, i casi di insegnanti che chiedono la visita sono raddoppiati>>. Eppure, è una prassi spesso ignorata dai docenti, e dagli stessi dirigenti: solo uno su cento sa che può richiedere l’accertamento se vede un insegnante <<vacillare>>. <<Stiamo raccogliendo le firme affinché il ministero della Pubblica Istruzione si occupi seriamente del problema. Formazione, prevenzione e condivisione sono fondamentali: sul blog scuola, gli insegnanti hanno la possibilità di raccontarmi la loro storia, leggere quelle degli altri e avere un supporto>>.
Alla condivisione ha dedicato la sua attività Anna Di Gennaro, maestra prepensionata, sette anni fa, a causa del disagio mentale professionale. Una donna di 57 anni pimpante, allegra, che è difficile immaginare con <<i segni della depressione in viso, piegata in due dal mal di schiena che altro non era che una somatizzazione del profondo malessere>>. Con Lodolo Dìoria ha gestito uno sportello di ascolto sul sito orizzontescuola, scrive sul burn out sul sito ilsussidiario., mantiene contatti con docenti <<scoppiati>>. Che possono <<guarire>>: l’importante è riconoscerli in tempo.
Vanity Fair, 8 Dicembre 2010, numero 49
Articolo di Cristina Maccarrone. Foto di Franco Guardascione
Ferdinando Pellegrino - Psichiatra, Psicoterapeuta