L’AMORE CHE FINISCE

La psicopatologia della vita amorosa contrassegna l’esistenza di molte persone; la natura dei legami affettivi incide notevolmente sulla qualità della vita di un individuo poiché può esacerbare, evidenziare o accrescere l’insicurezza personale.
Quando il coinvolgimento affettivo è totale l’Io si dissolve nell’altro – il noi

l'amore che finisceinvestendo ogni risorsa disponibile; il pensiero è orientato al noi, il presente ed il futuro acquistano senso e prospettiva solo se centrati sulla progressione del “Noi”, ed ogni altro elemento è escluso a priori.
In questa prospettiva il vero amore è fonte di felicità (emozione a basso costo) se la sintonia è piena ed il progetto esistenziale è in comune (ho la sicurezza della presenza dell’altro, della quotidianità, so che c’è) e non vi sono dubbi o gelosie.
Quando la certezza dell’essere in due – il noi – è totale il ben-essere diventa una realtà piena; essere per l’altro e sentirsi essere dell’altro rafforza la propria identità e il proprio senso di sicurezza; le difficoltà divengono sfide, le ansie opportunità di crescita, la tristezza momento di confronto.
Stiamo parlando tuttavia dell’amore ideale, rara combinazione, quasi un sogno…
Nella realtà l’investimento totalizzante – il noi - si rivela spesso fallace, fonte di angoscia, sofferenza, poiché nel venir meno dell’uno o dell’altro l’Io si frantuma, langue, ha difficoltà a ricomporsi; la rottura del noi, quando l’amore è totalizzante, può essere infatti fonte di depressione, ansia, frustrazione ed ideazione suicidaria; nulla ha più senso, nell’aver costruito un’altra identità (compenetrazione totalizzante dell’Io nel noi) la propria identità è stata ignorata (ho fatto tutto per lei o per lui, gli ho dato tutto …), denigrata, non ascoltata.
Diventa difficile per il terapeuta ricomporre l’Io e ridare fiducia all’individuo: come ridargli la prospettiva del futuro nella concretezza del presente svuotato e snaturato dall’abbandono.
Si, di abbandono si tratta, di tradimento, di dissolvimento dell’affettività; per il più debole può essere la fine di un’esperienza vitale, un lutto da elaborare; tuttavia non credo ci sia un vincitore; se l’amore è stato vero, il dissolvimento del noi comporta un lutto per entrambi, per il forte e per il debole.
Altrimenti non è stato vero amore ma solo disillusione.
In ogni caso nella mente di chi ama o ha amato rimane una traccia poetica difficile da contenere in una dimensione di ricordo innocuo; la sofferenza psicologica legata a vicende d’amore è profonda, difficile da elaborare; più che altro diventa duro sostenere nell’attualità la perdita (non c’è, non lo sento più … ) e in prospettiva è ancora più difficile recuperare le risorse necessarie per ricomporre la propria sofferenza e pensare e credere in progetti affettivi futuri.

Ma quale ottica può essere suggerita e supportata?
Panta rei!
L’espressione dà l’idea della crudeltà che può essere messa in campo; tutto passa! E’ possibile considerare l’amore come un’esperienza passata? Ed il divenire, la mutevolezza della realtà, il sapere che non ci si può bagnare nella stessa acqua di un fiume, può essere fonte di sollievo?
Credo proprio di no; è solo un modo per auto ingannarsi ed ingenerare ulteriore sofferenza.
Nel lavoro di ricostruzione del Sé frantumato non vi può essere l’immagine di un’esperienza fluida, trascorsa, non legata alla storia, ma al solo divenire snaturato di ogni essenza; un divenire senza storia.
Non può essere perché l’amore vero irrompe nella storia individuale e ne condiziona l’evoluzione; sarebbe troppo semplice pensare ad un colpo di spugna salvifico e rigenerante; non è così.
Lo dimostra la sofferenza di chi vive la disgregazione di un rapporto amoroso vissuto con grande intensità.
Dal punto di vista psicologico la rivincita dell’Io può solo passare attraverso il riconoscimento ed il ridimensionamento – sottrazione - del logos sottostante: ovvero la riaffermazione della propria continuità storica rispetto al divenire della realtà.
Un processo articolato, profondo, ma capace di incidere sul ben-essere di chi ha trovato sofferenza nell’amore.
La ricerca del logos è relativa alla riaffermazione della propria identità; consiste nella riappropriazione cosciente dei pezzi frantumati del proprio Io, e del disconoscimento cosciente dell’altro; consiste nel riappropriarsi del proprio Io, proprio di quell’Io precedentemente dissolto nel “noi”.

Questo significa:
1.    credere in se stessi, nella forza del proprio Io ricomposto.
2.    tenere a bada le emozioni ad alto consumo (rabbia, risentimento, desiderio di vendetta, di rivendicazione ….) con l’obiettivo di arrivare a disconoscerne l’esistenza affettiva dell’altro/a (= indifferenza) in modo definitivo.
Tale conquista psicologica è in grado di ridare all’individuo serenità e fiducia e di guardare con serenità oltre la sofferenza; nel logos c’è infatti l’essenza del proprio essere che sottratto all’altro consente il recupero della libertà perduta (autonomia vs dipendenza affettiva).
I tempi richiesti sono lunghi, mediamente tale processo richiede 8-10 mesi, in rapporto alla strutturazione personologica dell’individuo; il disconoscimento dell’altro come luogo affettivo è un processo che richiede tempi lunghi di maturazione e di sofferenza.

Le recidive? Sono sempre possibili!
Come comportarsi?
Evitare investimenti affettivi su persone “non affidabili”; non esiste un livello certo di affidabilità futura, ma esperienze pregresse che non hanno funzionato, difficilmente funzioneranno.
Meglio esplorare nuovi confini, forti del proprio Io ricostituito.

 

Per approfondire:
•  Pellegrino F, Psicopatologie emergenti, Mediserve, Milano-Firenze-Napoli, 2007
•  Pellegrino F, Essere o non essere leader, Positive Press, Verona, 2012