Le abilità emotive del medico. Nel 2004 ho pubblicato il libro La comunicazione in medicina (1) che dedicavo a Boris Luban-Plozza venuto meno proprio mentre lo stavo scrivendo, sollecitato dal suo costante incoraggiamento ad affrontare un tema a lui molto caro. Ho conosciuto Boris nel 1996,
quando ancora studente in medicina partecipai ad Ascona al “Premio Balint”, da allora mi sono recato più volte in Svizzera, ho partecipato per anni ai Gruppi Balint, secondo il modello di Ascona, e più volte ho invitato Boris a Salerno. La sua opera ed il suo pensiero sono stati per me un punto di riferimento costante, ma soprattutto la ricchezza più grande è stata la sua amicizia, il suo calore ed affetto, la sua spinta alla creatività e alla vitalità, fino alla fine.
Del suo pensiero due sono gli insegnamenti che in questa sede mi preme sottolineare e per i quali Boris nelle sue opere, ispirandosi agli insegnamenti di Michael Balint, ha sempre posto in rilievo e valorizzato con l’esperienza dei Gruppi Balint.
Il primo insegnamento nasce dall’assunto che nessun operatore sanitario può operare con serenità ed empatia se non ha un buon equilibrio psichico, il secondo nasce dalla constatazione che le abilità comunicazionali e relazionali non si possono apprendere dai libri, ma attraverso l’esperienza del lavoro di gruppo, mettendosi in discussione, osservando e riflettendo sul proprio modo di relazionarsi a se stessi e agli altri, con spirito critico ma soprattutto con quella flessibilità che consenta di modificare nel tempo quegli aspetti della personalità che limitano l’empatia.
Queste riflessioni appaiono come presupposti fondamentali per l’agire professionale, in un momento in cui la Sanità è in crisi, come appare in crisi il rapporto medico-paziente. E sicuramente nel pensiero e nell’opera di Boris l’assunto principale risuona con un monito ad essere attenti a non cercarsi alibi, a non deresponsabilizzarsi, a non pensare e ritenere che la formazione psicologica debba essere di esclusiva pertinenza degli psichiatri o degli psicologici. Boris ha sempre riconosciuto i limiti della formazione universitaria, per quanto ha potuto e realizzato ha cercato di sensibilizzare il mondo accademico a ritagliare più spazio per la psicologia medica, per la formazione psicologica del medico; ciò nella consapevolezza dell’attuale scarsa sensibilità – non solo in Italia – in tale ambito.
Tuttavia Boris ha sempre creduto e sostenuto che la responsabilità della vita degli altri richiede una formazione profonda, richiede l’acquisizione di strumenti psicologici idonei a cogliere la natura della sofferenza umana e la codifica del disagio psichico; ha quindi sempre sostenuto che ciascun operatore possa – e debba - farsi carico di un percorso formativo personale, non istituzionale (pur auspicato!) che possa colmare i limiti formativi universitari.
Intorno a sé Boris ha raccolto il consenso di migliaia di professionisti che nel mondo hanno accolto questo invito e che continuano a lavorare organizzando percorsi formativi specifici che rappresentano un punto di riferimento vitale per la formazione psicologica del medico e più in generale per ogni operatore della salute.
Già Balint affermava che “lo strumento della psicoterapia è il medico stesso". Ciò implica che egli deve costantemente badare ad essere in buono stato ed in condizioni di buon funzionamento.
Come è difficile operare con bisturi non affilato, ottenere radiografie precise con un apparecchio difettoso (…) così il medico non è in grado di ascoltare come si deve se non è in buona forma” (2).
Nell’attuale contesto sociale il ruolo del medico è diventato più difficile da sostenere, e sicuramente – oltre agli aspetti che disciplinano il Sistema Sanitario Nazionale – ci si ritrova ad affrontare problematiche un tempo inesistenti o comunque meno impattanti.
Il medico si ritrova infatti a gestire situazioni complesse in cui si intrecciano problematiche organiche e psichiche, si pensi ai risvolti psicologici della cardiologia o dell’oncologia, dei trapianti d’organo o dell’AIDS.
Ma si ritrova anche a fronteggiare l’aumento delle patologie croniche (salute residua) che rende particolarmente rilevante la necessità di adottare un metodo clinico che consenta sia al medico che al malato di affrontare le difficoltà di convivenza con malattie che non si possono “sconfiggere”, dovendo imparare a rimodulare gli obiettivi terapeutici verso la promozione della qualità della vita (3)
“Ma… il medico – si chiede Boris - ha realmente tempo per un dialogo più intenso con i pazienti? Possiede di fatto le capacità sufficienti?” (4).
L’introduzione in sanità di metodologie di gestione aziendale, senza nulla togliere al rapporto umano e professionale tra il medico ed il paziente, sta rivoluzionando l’intero assetto organizzativo e comporta per il medico l’assunzione di un atteggiamento innovativo nei confronti del proprio operato, in ragione della necessità di raggiungere una migliore efficienza in rapporto alle risorse disponibili.
Oggi viene richiesta flessibilità, competenza e maggiore professionalità, quali esiti di una formazione alla professione più globale, che comprende aspetti tecnici, psicologici, manageriali.
Per la propria sopravvivenza il medico deve saper adottare specifiche strategie psicologiche utili a meglio gestire la complessità della realtà professionale quotidiana e ciò può essere appreso attraverso specifici programmi di addestramento all’autonomia grazie ai quali è possibile imparare a:
• esprimere più liberamente le emozioni
• affrontare lo stress con maggiore efficacia ed autonomia
• contare di più sulle proprie forze.
Non basta essere bravi medici, tecnici specializzati in precisi ambiti della medicina e della chirurgia.
Occorre avere una buona conoscenza di specifiche nozioni di psicologia utili sia per gestire il rapporto interpersonale in ambito lavorativo sia, soprattutto, per poter conoscere il mondo interiore dei pazienti, presupposto per qualsiasi forma di relazione e comunicazione ed in linea con un approccio olistico o psicosomatico, in cui diventa centrale l’uomo (5).
La medesima malattia, pur presentando caratteristiche uniformi che la rendono riconoscibile da malato a malato (è uguale per tutti i pazienti) è vista anche in ciò che distingue un paziente dall’altro, nel modo, cioè, in cui ciascun malato la vive a seconda della propria storia.
Per cogliere l’unicità della sofferenza Boris ha più volte richiamato la necessità di affinare l’ascolto e per ascoltare bene è necessario liberarsi di quello che abbiamo in mente e sentire ciò che occupa invece quella degli altri.
L’attenzione contraffatta non funziona, allenarsi per ascoltare “con il terzo orecchio” (6) vuol dire affinare l’intuito empatico, per rendere possibile una reale comprensione della sofferenza del paziente.
La mente emozionale e quella razionale operano così in grande armonia con le loro modalità di conoscenza che pur diverse si integrano reciprocamente per guidarci nella realtà.
In questo senso la medicina psicosomatica è un modo di esercitare la medicina in qualunque sua branca, e quindi non è una specializzazione.
La medicina psicosomatica è una corrente di pensiero che ha l’obiettivo di (7):
1. riumanizzare il rapporto medico-paziente
2. recuperare lo stile di un’arte sanitaria centrata più sul malato che sulla malattia
3. restituire la giusta e opportuna dignità sia a chi soffre sia a chi cura
4. integrare, fra i fattori di rischio delle malattie fisiche, le variabili di personalità, gli stili di vita, i modelli comportamentali, le relazioni interpersonali.
Il medico ha difficoltà ad agire, teme che il paziente gli porti via molto tempo, teme di coinvolgersi troppo e che ciò non sia compito suo. Può quindi essere indotto a prescrivere esami e farmaci. Tuttavia anche quando il dolore è “fisico” non bisogna esimersi dall’esercitare fin dall’inizio un’influenza psicoterapeutica. Ogni incontro con il medico ha il suo effetto sul paziente, il quale rileva nel medico questa sua “risonanza comunicativa”.
Anche il paziente osserva il medico, il suo modo di comunicare, il suo modo di credere nei farmaci, la sua fiducia nella “risoluzione” del problema. Vi è quindi sempre un’analisi reciproca della situazione e vi sono delle aspettative da parte del paziente.
Negli ultimi anni la sensibilità del medico verso queste problematiche è cresciuta sensibilmente, così l’entusiasmo verso la professione, nonostante la “fatica che quotidianamente” occorre affrontare.
Tale entusiasmo e sensibilità è certamente importante – ha sempre sostenuto Boris - per favorire quel processo di formazione psicologica che non ha fine, ma che giorno dopo giorno evolve in modo continuo, lasciando che l’esperienza acquisita acquisti un valore formativo che consolida nel tempo la predisposizione ad apprendere dall’esperienza stessa che in questo modo diventa momento di formazione e crescita.
L’opera futura sarà quella di favorire contesti di apprendimento esperienziali, che vadano a valorizzare e ad arricchire non solo il bagaglio di conoscenze scientifiche del medico, quanto anche la sua competenza emotiva e relazionale.
Alcune recenti indagini (7) si sono proposte di valutare il livello di abilità emotiva presente negli operatori che è stato poi correlato al grado di soddisfazione professionale al fine di identificare gli strumenti che consentono l’utilizzo ottimale delle risorse psicologiche individuali.
L’abilità emotiva riscontrata nei medici è stata elevata, così come appare alto il livello di soddisfazione professionale anche se si ha la consapevolezza che la professione può essere causa di disturbi come ansia e tensione, stanchezza, depressione e anche motivo di minore efficienza lavorativa, irritabilità e superficialità nel rapporto con il paziente.
I dati raccolti indicano che esiste una diretta correlazione tra il grado di soddisfazione professionale e lo sviluppo individuale delle abilità emotive; ciò che manca è spesso la consapevolezza di possedere tale abilità, di riflettere sul ruolo che possono avere nella gestione del quotidiano, sull’importanza che hanno nel favorire livelli ottimali di qualità di vita.
L’opera di Boris Luban-Plozza può pertanto essere un esplicito invito a imparare a riconoscere e gestire in modo ottimale le risorse psicologiche di cui si dispone in quanto l’impegno professionale quotidiano comporta in ogni caso un notevole dispendio di energia sia fisica che psichica.
“Il farmaco di gran lunga più usato in medicina generale è il medico stesso” sosteneva Balint. Tuttavia il “buon senso” non basta, occorre una formazione specifica, una riflessione sul proprio modo di essere e di relazionarsi agli altri.
Partendo da questi dati e riflettendo su di essi sono state elaborate specifiche strategie di addestramento attraverso lavori di gruppo, inseriti nel contesto di corsi ECM, che impegnano il professionista nell’acquisizione di una maggiore consapevolezza delle proprie emozioni; ciò rende più trasparente il rapporto con se stessi, consentendo un migliore accesso alle emozioni del paziente (empatia).
Lavorare in gruppo, esprimere emozioni e condividerle con gli altri colleghi affina quindi la capacità clinica di giudizio e consente di porre le basi di un rapporto di fiducia che vede medico e paziente alleati lungo il percorso di malattia. Ciò appare anche determinante per la codificazione della gestione della giusta distanza emotiva con il paziente, al fine di evitare, da un lato, un distacco emotivo che limita la relazione e, dall’altro, un eccessivo coinvolgimento emotivo che può diventare un carico aggiuntivo difficile da gestire.
Nella modulazione di tale distanza il rapporto cresce e si struttura nel tempo ed il medico impara a riappropriarsi di una dimensione emotiva che lo pone in condizione di riconoscere e gestire al meglio le più importanti emozioni che ricorrono nella relazione con gli altri.
Questo processo apporta benefici anche sul versante personale; la capacità di decodificare e gestire le proprie emozioni aiuta a promuovere il benessere e a riconoscere i limiti umani e professionali dell’agire quotidiano, facilitando l’attuazione di uno stile di vita più funzionale (3).
“Lavorare in gruppo – scrive uno dei partecipanti - mi è servito molto anche a ragionare sulla spesa umana di questo lavoro e mi sono accorto di essere davvero una rana in pentola...
così ora finisco prima la sera e suono in una nuova big band". Una consapevolezza ritrovata attraverso un momento di riflessione che è servito a rileggere, per meglio gestire, il carico emotivo della professione sanitaria ritenuta a rischio per lo sviluppo di patologie da stress lavorativo come la sindrome del burn-out (8,9).
L’esperienza emozionale dei lavori di gruppo – così come ha sempre insegnato Boris - appare quindi di fondamentale importanza per la gestione delle risorse umane in ambito lavorativo, ma anche come modalità di attuare strategie di supervisione del lavoro svolto e come strategia di prevenzione di dinamiche psicologiche che possono confluire in strutturazioni psicopatologiche (8).
Costruire un gruppo funzionale richiede costanza e impegno progressivo. Essendo un’esperienza vissuta in prima persona richiede una partecipazione attiva e diretta, duratura nel tempo, tale da garantire una “modificazione notevole, seppur parziale, della personalità del medico” (2).
Nel contesto della formazione ECM si ritiene quindi importante implementare questo tipo di esperienza che rafforza l’identità medica nei suoi aspetti umani e professionali e consolida metodologie di insegnamento e apprendimento proprie dell’andragogia (10, 11).
E’ questo credo sia l’insegnamento più importante che l’opera di Boris ci ha lasciato ed è così che mi piace ricordarlo, con ciò che oggi riesco ad essere e a fare grazie al suo aiuto, alla sua presenza che vivo con l’entusiasmo di sempre, e alla ricchezza dei libri e dei tanti scritti che mi ha inviato e che conservo con amorevole cura.
Bibliografia
1. Pellegrino F, La comunicazione in Medicina, Mediserve, Milano-Firenze-Napoli, 2004
2. Balint M, The Doctor, his Pazient and the Illness, Pitman Medical Publishing Co. Ldt, London 1957 (tr. It. Medico, paziente e malattia, Feltrinelli Editore, 1990)
3. Cosmacini G, Il mestiere di medico, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000
4. Luban-Plozza, Pöldinger W, Kröger F, Il malato psicosomatico e la sua cura, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1992
5. Moja EA, Vegni E, La visita medica centrata sul paziente, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000
6. Delli Ponti M, Luban-Plozza B, Il terzo orecchio, Centro Scientifico Torinese, Torino, 1991
7. Consensus Statement su Medicina Psicosomatica e formazione psicologica del medico. Medicina Psicosomatica, volume 42, numero 3, 1997, Società Editrice Universo, Roma
8. Pellegrino F, La sindrome del burn-out, Centro Scientifico Editore, Torino, 2002. Nuova Edizione,Totino, 2009
9. Pellegrino F, Oltre lo stress, burn-out o logorio professionale, Centro Scientifico Editore, Torino, 2007
10. Pellegrino F, Filocamo G, La gestione dello stress lavorativo, MD Medicinae Doctor, XII, 11/12: 4-7, 2005
11. Pellegrino F, Valorizzare le risorse umane, Mediserve, Milano-Firenze-Napoli, 2007
Ferdinando Pellegrino, Psichiatra, Psicoterapeuta
Problemi in Psichiatria. Anno 15 Numero 42-43 settembre 2007: 29-35