L’invecchiamento cerebrale evoca immagini di declino, di inevitabile modifica dell’immagine corporea e del proprio ruolo familiare, lavorativo e sociale; anche per il medico è difficile accettare una riduzione della propria performance lavorativa.
È un dato di fatto che con l’età aumenta il rischio di malattie neurodegenerative e cerebrovascolari, soprattutto se si soffre di ipertensione, di diabete, se si è affetti da obesità e si ha uno stile di vita disfunzionale (vita sedentaria, fumo di sigaretta).
Per i medici, l’età pensionabile è fissata a 68 per l’ENPAM (Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza Medici) e a 67 anni per i dipendenti pubblici che possono chiedere di rimanere in servizio fino a 70 anni; ora, vista la carenza di medici è anche possibile andare in pensione a 72 anni.
A questo punto c’è da chiedersi: chi controlla le funzioni cognitive dei medici?
Nelle Aziende Sanitarie il medico competente programma ed effettua la sorveglianza sanitaria attraverso protocolli sanitari definiti in funzione dei rischi specifici al fine di valutare l’idoneità alla mansione specifica monitorandola periodicamente (ex art. 25 e 41 legge 81/2008), ma ci si limita a richiedere gli esami di laboratorio ed un ECG (elettrocardiogramma).
E per il libero professionista – convenzionato o meno con il SSN (Sistema Sanitario Nazionale) – quali controlli sono previsi?
Ovviamente, l’esperienza professionale, il livello di istruzione ed il costante aggiornamento possono fungere da garanzia per la competenza professionale del medico, ma, soprattutto, se sottoposto a continue tensioni, considerando anche l’attuale deficit di personale medico e in presenza di patologie quali il diabete o l’ipertensione, il rischio per lo sviluppo di un quadro clinico da deficit cognitivo è più elevato; ciò a danno dell’efficacia professionale e della sicurezza dei processi assistenziali.
Dal punto di vista clinico l’invecchiamento cerebrale di per sé comporta un deficit della memoria e un generale rallentamento delle funzioni cognitive, con una riduzione della capacità di elaborazione di nuove informazioni. Si dimenticano più frequentemente i nomi, si perdono con facilità oggetti come le chiavi, ci si ricorda dei punti essenziali di una determinata questione ma si fa fatica a ricordare i dettagli, si assiste a una maggiore difficoltà a gestire più stimoli o operazioni contemporaneamente, si commettono errori perseverativi con difficoltà di organizzazione della memoria di lavoro, con riduzione dell’efficienza e della capacità di giudizio.
I disturbi neurocognitivi (DNC) hanno così un impatto negativo sulle funzioni cognitive dell’individuo, interessando più domini (attenzione complessa, funzione esecutiva, funzione percettivo-motoria, cognizione sociale, apprendimento e memoria, linguaggio) che possono essere oggetto di valutazione neuropsicologica.
Particolare attenzione deve essere rivolta al Disturbo neurocognitivo lieve (già noto come Mild Cognitive Impairment, MCI) che si manifesta con un modesto deficit cognitivo rispetto al livello precedente di prestazione: vi è una conservazione dell’autonomia personale pur dovendo, il soggetto, attuare strategie compensatorie o di adattamento per la gestione delle attività quotidiane; deve cioè “sforzarsi di più” rispetto al passato.
Si pensi quindi al professionista che deve “prendersi più tempo” per prendere una decisione, che ha necessità di maggiore spazio e tranquillità per elaborare le informazioni cliniche, considerando tra l’altro che spesso si trova ad operare in strutture sanitare caotiche e disorganizzate.
La diagnosi del DNC lieve si basa su un’attenta valutazione clinica supportata da test neuropsicologici per una determinazione più accurata del livello di disabilità acquisita.
Allo stato delle conoscenze non abbiamo alcuna certezza se e quando un Disturbo neurocognitivo (DNC) lieve evolve in un disturbo maggiore, l’evoluzione del quadro clinico in un disturbo maggiore dipende da numerosi fattori, ad oggi non ben identificati.
Motivi questi che rendono più che mai indispensabile attuare un programma di screening di base sulle funzioni cognitive dei sanitari, con il monitoraggio periodico del loro stato di salute, così come previsto per legge.
È indubbio che, dal punto di vista della sicurezza dei processi assistenziali, tali condizioni cliniche vanno individuate e monitorate con particolare attenzione, sia perché sono più frequenti di quanto si possa ritenere, sia per l’intrinseca potenzialità a mettere in pericolo la sicurezza dei processi assistenziali.
Ci si rende conto tuttavia che può essere oneroso o difficile attuare uno screening a tutti i medici, si potrebbe così iniziare dai soggetti più vulnerabili che, nella mia esperienza professionale sono quelli affetti da diabete, ipertensione, obesità o comunque da altre condizioni mediche – come la fibrillazione atriale – che possono renderli più vulnerabili allo sviluppo di un disturbo neurocognitivo.
In un momento in cui la Sanità è sotto pressione, e si parla tanto di sindrome del burn-out, in una fase che – post-pandemica – vede gli operatori sanitari più vulnerabili rispetto allo sviluppo di patologie psichiche o fisiche, è bene avere riguardo della loro salute mentale – cognitiva ed emotiva – per garantire il benessere del sanitario e la sicurezza stessa dei processi assistenziali.
Bibliografia
• American Psychiatric Association, DSM-5-TR, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Raffaello Cortina Editore, Milano. 2023
• Pellegrino F, Le funzioni cognitive del medico e la sicurezza dei processi assistenziali, Decidere in Medicina, Anno XIII, 2, 2023
Medici oggi - Il rischio clinico e le funzioni cognitive del medico - venerdì 14 luglio 2023