Nel dare una risposta allo stress la persona mentalizza l’evento, si rende conto della portata dello stesso, ne codifica il rischio e, sostenuta dall’attivazione emozionale, lo affronta disattivando gli aspetti di paura e di angoscia più ancestrali.
Questo processo ha consentito all’uomo, nel corso dell’evoluzione, di affrontare pericoli e fatiche senza sosta, riuscendo a calibrare le proprie risorse con l’obiettivo primario di salvaguardarsi, di sopravvivere.
Più in generale rispetto agli eventi stressanti la persona reagisce con risposte di attacco e fuga.
Una risposta di attacco in alcune circostanze può sembrare di incoscienza o di estrema freddezza ma è una risposta vitale sostenuta da profonde spinte motivazionali.
L’altra risposta tipica dell’uomo è quella della paralisi o della fuga: per vari motivi, alcune persone non riescono a calibrare il forte impatto emotivo a cui un evento stressante le espone, emergono allora paure primitive con la prevalenza di una risposta paralizzante che evita alla parte sana della persona di vedere il trauma, se ne distacca al fine di salvaguardare la propria incolumità. Anche questa risposta può essere funzionale.
In ogni caso l’individuo attiva meccanismi di sopravvivenza: entrambe le modalità di risposta non scorrono su binari paralleli, ma su dimensioni psicologiche che si intrecciano in modo continuo dando luogo a stati d’animo fluttuanti, di timore e di coraggio, di paura e di fierezza.
Il problema rilevante è che, nel trambusto della risposta allo stress, questi fattori psicologici lasciano una traccia nella memoria, una narrazione degli eventi che lascia un segno nella persona, un ricordo che può non destare alcun problema nel futuro.
Ma qualcosa può non andare per il verso giusto. La memoria può uscirne frammentata, svincolata dal tempo e dallo spazio, intrisa di ricordi sfuocati, tipici dei disturbi post traumatici poiché tali ricordi rievocano l’evento traumatico anche quando tutto si è risolto, immagini che ritornano nel presente (qui ed ora) anche per stimoli apparentemente insignificanti in grado, tuttavia, di sollecitare il sistema di allarme dell’organismo alla base dei disturbi psichici post-traumatici.
La neurobiologia oggi ci insegna che il cervello “trascrive” tutte le esperienze della vita e che, dopo un trauma, generalmente, cambia la visione della vita: si avrà più paura o più coraggio?
La Tomografia a emissione di positroni (PET), prima, e la Risonanza magnetica nucleare (fMRI), poi, ha consentito agli scienziati di visualizzare in che modo le varie parti del cervello si attivano, quando le persone sono coinvolte in certi compiti o quando ricordano eventi del passato.
<<Per la prima volta – evidenza Bessel Van Der Kolk nel suo "Il corpo accusa il colpo" – si è potuto osservare il cervello nel momento esatto in cui elabora i ricordi, le sensazioni, e si è potuto cominciare a mappare i circuiti della mente e della coscienza>>.
Dopo il trauma si viene a determinare un nuovo equilibrio tra la visione del mondo e la modalità con cui si reagisce agli eventi stressanti; questo equilibrio coinvolge aree cerebrali diverse, da una parte si attiva un sistema d’allarme, dall’altro entra in gioco un sistema frenante, capace di smorzare l’ansia o di ridimensionarla in modo da poter consentire all’uomo di agire con maggiore consapevolezza.
Un equilibrio delicato, che si basa su dimensioni cerebrali apparentemente contrapposte, perché se non riescono a conciliarsi possono dar luogo luogo ad una disfunzione stessa del sistema, alla base degli effetti negativi, anche a distanza di anni, delle esperienze stressanti.
Oggi riusciamo a comprendere ciò che Sigmund Freud aveva già concettualizzato.
<<La nevrosi traumatica è – scriveva Freud – una fissazione della mente al momento dell’incidente traumatico>>.
Nei sogni dei pazienti affetti da disturbo da stress post-traumatico vi è una ripetizione regolare della situazione traumatica e l’”attacco isterico” altro non è - continua Freud – che la trasposizione completa nella situazione anzidetta: il trauma è un’esperienza che apporta alla vita psichica un incremento di stimoli totalmente forte che la sua “liquidazione e elaborazione” nel mondo usuale può non andare a buon fine.
Si rimane così ancorati al passato, come nella nevrosi; nella mente il trauma rimane un “brano penoso del passato” che può ripresentarsi una o più volte, all’improvviso, per stimoli anche insignificanti.
In ciò entra in gioco l’inconscio, depositario della trascrizione degli eventi traumatici e dell’attivazione delle dinamiche psicologiche di difesa, quali la rimozione; ma, nel post trauma l’inconscio altro non è che la memoria frammentata e destrutturata, messa da parte perché temuta e angosciante; da qui un rifiorire continuo di immagini e sensazioni che ritornano alla mente eludendo i processi cognitivi, determinando l’attivazione inconsapevole e inappropriata del sistema d’allarme.
Lo stesso Freud affermava che la “consapevolezza deve basarsi su un cambiamento interiore dell’ammalato”, poiché solo i “processi consci non danno luogo al sintomo” e che la terapia “opera trasformando in conscio ciò che è inconscio”.
La neurobiologia oggi nulla toglie dunque all’opera di Freud che riletto alla luce delle nuove conoscenze arricchisce il clinico che ogni giorno si confronta con le esperienze traumatiche dei suoi pazienti.